24.01.2019 – LINEE GUIDA E CONCESSIONI: I PROFESSIONISTI ANCORA AL PALO?
Il giorno 21/1/2019 la Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio ha emanato una circolare (4/2019) concernente le concessioni di scavo e le ricerche archeologiche: nel testo vengono descritte le procedure con cui è possibile richiedere la concessione di scavo, che comprendono, giustamente, l’obbligo di restauro da parte del concessionario, l’utilizzo di personale scientificamente preparato per la direzione, la limitazione dell’attività di scavo a professionisti e studenti di materie archeologiche, oltre a una serie di documenti e garanzie.
 
Buona parte della circolare è ricalcata, però, su quanto lo stesso Direttore Generale emanò nel 2016 e che avemmo già occasione di criticare pubblicamente per l’eccessiva burocratizzazione delle procedure e per il chiaro tentativo di aprire un fronte di scontro tra le Università e il Mibact, per cui la nostra analisi non si soffermerà su questo aspetto.
 
Intendiamo invece analizzare le novità che la nuova circolare contiene.
 
L’elemento che desta più preoccupazione è il tentativo di riportare nella disciplina giuridica della concessione, la cui gestione è affidata alla Direzione Generale ABAP, praticamente tutte le attività connesse con l’identificazione o l’indagine di un sito archeologico: estendere questo principio a qualunque attività di ricerca archeologica, come esplicitamente sostiene il Direttore Generale nella circolare, significa cercare di porre sotto controllo l’intera attività di ricerca degli archeologi.
 
Per giustificare questo provvedimento, che evidentemente farà discutere, il Direttore fa riferimento al fatto che i Soprintendenti, a seguito della riforma Franceschini del 2016, possono non essere archeologi e dunque sia consigliabile avocare alla stessa Direzione Generale, senza deleghe, il potere di decidere delle concessioni.
 
Difficile da sostenere, visto che oggi la Direzione Generale è affidata non a un archeologo, ma a un avvocato!
 
Basterebbe citare l’art. 33 della Costituzione Italiana, che sancisce la libertà di ricerca, per controbattere il messaggio espresso dalla Circolare: mentre, infatti, si comprende come l’istituto della concessione sia previsto per attività invasive e ricordato anche nella Convenzione di La Valletta (come riportato, peraltro, anche nella circolare), non ha alcun senso estenderlo a tutte le attività non invasive, se non quella di ridimensionarne il numero e la portata.
 
Con la stessa visione sembra pensato un provvedimento contenuto nelle Linee guida, emanate in data 28 dicembre 2018 dal Ministro Bonisoli, contenente, tra gli altri, le priorità del Ministero per il 2019 e per il biennio 2020/2021.
 
Oltre a un accenno alla stesura e all’emanazione delle Linee guida per l’archeologia preventiva, ma nessuno ai regolamenti della legge 110/2014 sul riconoscimento dei professionisti dei Beni Culturali, il documento si sofferma su un tema che sembrerebbe di secondaria o nulla importanza.
 
Nel testo, infatti, si legge dell’incentivazione alla creazione di “aree di riserva archeologica”; questa espressione, inserita nel testo italiano della Convenzione di La Valletta del 1992, è stata sempre, correttamente, interpretata come la versione malamente tradotta in italiano dei termini utilizzati nel testo in inglese (errata al pari, forse, solo di “eredità culturale” versione italiana del Cultural Heritage menzionato dalla Convenzione di Faro).
 
Le aree di riserva archeologica diventano quindi la versione aggiornata delle, già ampiamente note ed esistenti aree archeologiche, ovvero aree di inedificabilità totale, sottoposte a vincolo per garantire lo scavo e lo studio dei resti archeologici in esse contenuti e conservati.
 
Da quel che ci è dato di capire dal testo, però, la Direzione Generale ABAP ne dà un’interpretazione più restrittiva, ritenendole aree in cui sia del tutto proibita qualsiasi attività, fin anche lo scavo archeologico, per garantire la conservazione dei resti archeologici per le generazioni future e limitare la pratica della concessione di scavo, da sempre uno dei cavalli di battaglia del Direttore Generale Famiglietti, sin dai tempi della sua direzione del settore archeologia.
 
L’avvocato Famiglietti è professionista di nota esperienza e competenza, e non può non sapere che sulla stessa pagina web del Consiglio d’Europa, dalla quale si scarica gratuitamente il testo della Convenzione di Malta è possibile visionare anche il testo esplicativo della Convenzione stessa, che per l’articolo 2, che riguarda le aree di riserva archeologica, così recita:
 
Archaeological reserves are areas of land subject to certain restrictions in order to preserve the archaeological heritage contained within the borders. The Unesco Recommendation concerning the Preservation of Cultural Property endangered by Public or Private Works (19 November 1968) provides that (Article 24.a): “Archaeological reserves should be zoned or scheduled and, if necessary, immovable property purchased, to permit thorough excavation or the preservation of the ruins found at the site.” Article 2 of the revised Convention is aimed at preserving the heritage in order that it will be available for later generations. It should be read in conjunction with Article 4, sub-paragraph i. The creation of reserves does not mean that the land cannot be used at all. Normally, it means that operations which disturb the soil cannot be allowed, or must first be cleared by the relevant authorities. Any excavation must be subjected to severe scrutiny in the light of scientific objectives.
 
Dal testo si evince, dunque, che anche qualora l’espressione riserva archeologica ponesse dubbi in chi legge la Convenzione di La Valletta, la volontà dei suoi estensori era chiara: si tratta delle aree archeologiche sottoposte a vincolo – il riferimento all’articolo 4 comma I della Convenzione questo dice, aree dove sono possibili lavori solo sotto stretto controllo delle autorità, dove lo scavo deve essere autorizzato solo sulla base di severi criteri scientifici, le Concessioni appunto – per proteggere i Beni in esse contenuti dall’impatto dai lavori pubblici e privati, dunque non dallo scavo stesso!
 
Il riferimento alle generazioni future è citato riguardo all’Heritage, ovviamente, al patrimonio in quanto tale, non alle stratigrafie, ed è una classica formula su cui in questa convenzione e in molte dichiarazioni UNESCO, si fonda tutta la disciplina della tutela.
 
Non comprendiamo, dunque, né il senso di novità, se davvero si intendevano solo le aree archeologiche, né il riferimento di legge, nazionale e internazionale, e ancor meno il senso logico.
 
La nostra riflessione non può che procedere cercando di ampliare l’orizzonte di discussione.
 
L’archeologia italiana, così come quella europea e mondiale, sta vivendo una profonda crisi di identità e di prospettiva.
 
La sua stessa esistenza è minacciata da due fattori fondamentali: il crollo delle iscrizioni universitarie e la costante diminuzione di lavori disponibili, entrambi causa e conseguenza dell’abbandono della nostra professione da parte di tanti colleghi.
 
Dopo 27 anni di archeologia post-Malta, come viene generalmente definita in Europa l’archeologia sviluppatasi dopo il 1992, estremamente legata allo sviluppo del territorio e alla realizzazione di infrastrutture, la crisi economica ha definitivamente messo in evidenza come la nostra disciplina debba trovare ragioni forti e autonomia per camminare, magari parallelamente, al settore edilizio e delle costruzioni, ma in maniera del tutto indipendente.
 
A questa crisi aggiungiamo che i corsi universitari archeologici possono contare sempre meno sui finanziamenti per gli scavi didattici, quelli in cui si dovrebbero formare i nuovi professionisti, contribuendo a far regredire la nostra disciplina a ciò che era prima dei cambiamenti della fine degli anni ’70: pura disciplina storica senza alcun legame con la realtà materiale di cui si dovrebbe occupare.
 
Per paradosso, dunque, si ritiene che limitando le concessioni di scavo, e dunque le occasioni di formazione per gli studenti di archeologia, si faccia una operazione che, alla lunga, aiuterà la tutela e la conservazione dei Beni Archeologici, mentre non si ragiona sul fatto che diminuendo le occasioni di esperienza sul campo per chi vi dovrà, prima o poi, operare, si contribuisce e immettere sul mercato professionisti che non saranno in grado di scavare correttamente, mettendo, in questo caso per davvero, a repentaglio proprio la tutela dei Beni che si intendeva favorire!
 
Concludendo questo ragionamento, ci permettiamo invece di dare un suggeriremmo al Ministro, se mai ne avesse il bisogno: presti particolare attenzione nell’immediato, al tentativo di alcune regioni – Veneto e Lombardia per ora, ma pare anche Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna in un futuro molto prossimo – di richiedere allo Stato le competenze sulla tutela.
 
Questo passaggio porterebbe a una gestione regionale del sistema della tutela, finora garantita e sancita dalla Costituzione italiana, ovvero potenzialmente a 20 sistemi diversi, creando inevitabilmente un’ulteriore frammentazione del concetto stesso di tutela, conservazione e valorizzazione del nostro patrimonio, con tutte le negative conseguenze sulla necessaria distanza degli organi di tutela da quelli politici di indirizzo.