La Confederazione Italiana Archeologi ha accolto con soddisfazione le obiezioni mosse dalla Sezione consultiva del Consiglio di Stato (adunanza del 13 marzo 2006), in merito al regolamento del Ministero dei Beni culturali che deve rendere operativa la previsione della legge 109 del 2005. In effetti, larga parte di tali obiezioni, di carattere sia procedurale, sia di merito, rappresenta una conferma istituzionale alle numerose perplessità già espresse dalla stessa Confederazione Italiana Archeologi all’indomani della pubblicazione del decreto legge sull’archeologia preventiva.
Per quanto concerne i difetti di tipo procedurale, si condivide il rilievo del relatore L. Carbone a proposito della dichiarazione ministeriale di “aver rispettato l’adempimento di legge che prevedeva di sentire una rappresentanza dei dipartimenti universitari”, ai fini di una consulenza specialistica necessaria per la redazione del regolamento: essendosi trattato di fatto di una consulenza a titolo personale e informale, essa è ritenuta inaccettabile dal Consiglio di Stato, nonostante la presenza di “sei eminenti cattedratici”.
E ancora, al pari di quanto obiettato in precedenza dalla Confederazione Italiana Archeologi, sono state stigmatizzate dal C.d.S. la vaghezza dei criteri di formazione di tale commissione, nonché la sua insufficiente rappresentatività, invitando a una maggiore collaborazione con il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, soprattutto al fine di coinvolgere tutte le università interessate.
Compito di questo ministero dovrebbe essere inoltre giungere finalmente, in ambito universitario, a una definizione formale degli istituti e dei dipartimenti archeologici, la cui non unitarietà e per l’appunto l’indefinita natura non hanno di certo agevolato – né aiuteranno in futuro – l’individuazione degli interlocutori necessari in casi come la redazione della legge in discorso.
Ma al centro della discussione sull’archeologia preventiva, alla quale la Confederazione non si è sottratta esprimendo il dissenso dei propri soci, è stata ovviamente la costituzione dell’ormai famigerato “elenco” dei soggetti qualificati ad effettuare nonché a validare le attività di ricerca. Il Consiglio di Stato, preoccupandosi di sottolineare marcatamente che si dovrà comunque trattare di “un mero accertamento (e non di ammissione), con effetti solo dichiarativi (e non costitutivi abilitanti)” limitati peraltro alla sola “archeologia preventiva”, finisce per concordare con la Confederazione Italiana Archeologi, prefigurando un uso allargato a molte altre situazioni lavorative di quello che, in assenza dell’albo professionale, viene a costituire un “albo di fatto”. E la preoccupazione del C.d.S. è tale, in considerazione di questo rischio oltremodo reale, discriminatorio e foriero di poco auspicabili rapporti di subordinazione, da richiedere l’intervento del Ministero della Giustizia, affinché sia valutata la compatibilità della disciplina dei criteri per tenuta dell’elenco con il sistema degli ordini professionali.
Scorrendo le successive obiezioni della Sezione consultiva alla ratio del legislatore, si constata l’effettivo, notevole sbilanciamento del decreto a favore dell’Università, già rilevato a suo tempo dalla Confederazione. L’ambiguità della compresenza di singoli docenti e ricercatori e di istituti universitari nell’ambito dello stesso elenco (vd. articolo 2, comma 3) viene interpretata, crediamo correttamente, come la volontà di “evitare che alcuni autorevoli esperti del settore possano non figurare, a titolo personale, nell’elenco, poiché già componenti di un istituto o di un dipartimento universitario”. E che un “soggetto possa figurare a titolo personale in un elenco di soggetti qualificati quando costituisce già elemento essenziale per la presenza, nello stesso elenco, dell’istituto” viene definito, senza mezzi termini, irragionevole e incoerente.
Allo stesso tempo, non passa affatto inosservata all’attenzione del Consiglio la deroga – di fatto una vera e propria concessione – prevista per i funzionari del Ministero: lo schema in effetti prevede, ad oggi, la possibilità di iscrizione all’elenco anche per “i dirigenti del Ministero, nonché i funzionari del Ministero muniti di diploma di laurea, o di laurea specialistica o magistrale, che abbiano svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella posizione funzionale di archeologo, per l’accesso alla quale è richiesto il possesso di laurea specialistica o magistrale equipollente al diploma di laurea”. Anche in questo caso, il parere della Sezione consultiva non lascia dubbi interpretativi: essa definisce l’articolo di legge “assolutamente non giustificabile, e per di più lesivo delle garanzie di professionalità imposte dalla legge”, e pertanto pericolosamente orientato a costituire un “albo speciale” per funzionari privi dei titoli necessari, il cui ruolo in materia di archeologia preventiva dovrebbe invece essere quello di tenere l’elenco stesso e curarne l’aggiornamento.
Il documento del Consiglio si chiude con il suggerimento di valutare la possibilità di inserire una “nuova norma su una eventuale ripartizione dell’elenco per categorie, da connettere alla diversa collocazione territoriale dei soggetti iscritti, al loro diverso ambito di operatività (nazionale o locale), ovvero alla loro particolare specializzazione in un dato tipo di archeologia o di epoca storica”.
A tal proposito, la Confederazione Italiana Archeologi, se non trova nulla da eccepire sulla classificazione per aree geografiche degli iscritti (sempre che ciò non implichi l’interdizione, o anche solo la penalizzazione, in sede di affidamento di lavori distanti da “casa”), ritiene in linea di principio corretta una ulteriore ripartizione per competenze distinte per tipologia delle ricerca e periodi di competenza specifiche: tuttavia, essa comporterebbe notevoli difficoltà di gestione nella valutazione delle competenze dei soggetti esaminati, in molti casi trasversali sia nel senso delle forme di indagine archeologica, sia nel senso della cronologia dei periodi di interesse.
Alla luce di quanto appena illustrato, unitamente alla constatazione del fatto che solo in rari casi – allo stato attuale della struttura dei corsi – i diplomi di dottorato e di specializzazione rappresentano un sostanziale salto di qualità nella formazione dell’archeologo, l’idea maturata dalla Confederazione che la laurea debba fare l’archeologo appare un’esigenza quanto mai pressante, per la cui acquisizione non si potrà prescindere da una ponderata e mirata revisione dei percorsi formativi universitari.